Cose dell’altro mondo- La nebbia

Il paese sul cocuzzolo, avvolto dalla nebbia, a mezza cinta.
Lo guardavo dal basso, in un’umida giornata di autunno, e non riuscivo a distaccare gli occhi da quello spettacolo senza pubblico pagante, da solo nella radura, circondato da terre scoscese dal colore di Siena e fronde dormienti nel riposo giustificato dal lussureggiare dell’estate precedente.
Tutto attorno a me pareva racchiuso come in un gigantesco carillon, dove la perfezione del meccanismo si avvicina al moto perpetuo, e, minuto dopo minuto, la scena si racconta perennemente eguale a se stessa, sfruttando la magia del tempo sospeso.
I piedi erano saldi sul terreno, il cuore no, scrutavo quella Shangri-La mediterranea ricordando le letture infantili, immaginavo che davvero, percorrendo solo pochi metri immersi in quelle nuvole ferme, la temperatura potesse esplodere in una primavera perenne, mi convincevo che avrei colto frutti succosi, che mi sarei bagnato in fiumi nei quali scorreva l’oro, che i profumi sarebbero stati inebrianti.
Ne ero certo.
Accesi una sigaretta, per prepararmi alla salita, mi accovacciai sui talloni, piegando la punta degli scarponi umidi di prato.
Trascorsi così qualche minuto, il rialzarmi dopo aver fumato mi regalò una leggera vertigine, che rese la mia testa vuota da pensieri.
Mi incamminai, tenendo dritto davanti a me il campanile che sovrastava il borgo.
Il sentiero divenne strada, la strada ponte, le spallette mi proteggevano da un abisso che sembrava attirarmi come un canto di sirena, vieni, vieni da me, non farti ingannare dalla cima, scendi a me.
Mi tappai le orecchie e aprii di più gli occhi, che come in una scena al cinematografo vedevano avvicinarsi l’immagine fissa, la vedevano acquistare definizione e dettaglio, cominciavano a distinguere le screpolature nelle macchie di colore.
Ma la nebbia, dio, la nebbia, una sorta di panna montata dolcissima, mi stava per accogliere.
Sapevo che avrei pagato il suo abbraccio con una cecità temporanea, mi sarei mosso al suo interno come un sonnambulo nella stanza, avrei conosciuto quanto di più vicino al limbo potessi sperare di trovare in terra.
L’ultimo metro prima della coltre, mi vide fare un balzo, come se l’ignoto dinanzi a me mi avesse risucchiato, finalmente libero dei miei tozzi contorni, potevo figurarmi come mai ero stato, il bianco che mi conteneva narrava di voci disperse nei tempi, di suoni senza musica, parole senza consonanti né vocali, profumi senza odore.
Ero davvero io, o qualcun altro che non ero mai stato?

Nonostante il grigio del cielo, fui quasi accecato dall’ocra spento dei mattoni che mi annunciarono la prima casa, laddove la strada si faceva stretta e curvava verso sinistra.
Il cuore mi batteva forte, chissà cosa mi aspettavo dietro quel muro, in un silenzio ora colorato dal chiacchiericcio delle gazze, ladre della mia immaginazione.

La piazzetta era misurata, né piccola né degna di essere considerata meta di raduno, come un’anticamera di casa padronale, sorvegliata a vista da leoni etruschi scolpiti nella pietra e smangiucchiati dallo scorrere dei secoli.
Severi, perdio, senza per questo causare paura, come maggiordomi attenti alla forma, sussurravano al mio cervello di tacere, di tenere a freno lingua e mani, di lasciare il pasto principale solo alla voracità degli occhi.

Fiori freschi ai balconi, gerani di mille colori, buganvillee e margherite che se ne strafottevano del calendario, l’esplosione del loro bouquet mi fece perdere la cognizione del dove e quando.
Guardai l’orologio fermo allo zero delle lancette, scomparsa la data, e le rughe dalle mie mani, solo le lentiggini mi erano familiari di un corpo che usciva dal mio.
Suonò un battito di campana, e si propagò per un tempo che irrideva le leggi della fisica e dell’uomo, vociare di ragazze mi circondava, profumo di pane caldo mi attanagliava lo stomaco, il ricordo degli spaghetti al pomodoro di mia nonna Consiglia mi avvolse come una cuccia calda, dove si stava bene, e l’innocenza era al di qua dall’essere un intralcio.
Quel sole pallido si era trasformato in astro padrone, donava forza alle mie gambe, che prese da una giga senza tregua mi facevano da guida in mezzo alla strada, dentro i vicoli, sotto i portoni, e più ne avevo, più ne volevo, e più ne volevo, meno mi bastava, e il fiato da quattordicenne esplodeva dentro il mio torace privo di peli, e il tepore della mattina si faceva strada nella mia bocca densa di denti ormai da anni dimenticati.

Quando mi svegliai, ero umido di foglie gialle.
Lo zaino sotto la schiena mi faceva male, mi alzai a fatica.
Prima di riuscire a vedere, dovetti abbandonare il buio dell’incoscienza, e l’immagine non era mutata: la nebbia, il cocuzzolo, il campanile.
Avevo sognato tutto, un mondo che coltivavo nei ricordi era diventato reale solo nella mia fantasia.
Mi venne da piangere, avevo voglia di correre verso il paese, ma sentivo che non ne sarei stato capace.
Radunai me stesso, con fatica.
Era ora di tornare, prima che la sera allungasse le sue ombre a mordermi le caviglie, presi lo zaino in spalla, e mi incamminai.
Frugai nella tasca del giubbino a prendere una sigaretta.
Il pane caldo mi scaldò la mano.
bagnoregio